Oggi sappiamo che le persone che parlano due lingue sono più flessibili perché possono organizzare il proprio pensiero in modo diversi ed è stato persino dimostrato che il bilinguismo può aiutare a prevenire l’Alzheimer.
Oltre ai vantaggi biologici e psicologici della conoscenza delle lingue, ci sono poi quelli pratici. L’argomentazione corrente è che, in un mondo globale, in cui le economie sono interconnesse, le informazioni viaggiano in tempo reale e le persone comunicano pur vivendo ai lati opposti della terra, non basta più essere monolingue.
Infatti, per quanto i sistemi di traduzione simultanea consentano di capirsi anche senza condividere il proprio idioma, è indubbio che conoscere le lingue – e le culture cui queste afferiscono – gioca un’importanza cruciale.
Insomma, non è più sufficiente essere monolingue e, forse, non basta neanche essere bilingue.
Ma, mi chiedo io, è mai bastato?
E’ mai stato poco importante parlare altre lingue oltre alla propria?
La domanda mi è sorta ascoltando il podcast di una interessante lezione del Cambridge Festival of Ideas. L’ha tenuta nel 2009 uno storico inglese, brillante e ironico come solo gli inglesi sanno essere, David Starkey, ed aveva per oggetto uno dei sovrani più malcompresi della storia: Enrico VIII Tudor. Un sovrano noto a molti per aver sposato sei mogli e per averne fatta decapitare qualcuna (ma, a chi fosse tentato di liquidare Enrico VIII come il sovrano più misogino della storia, consiglio l’ascolto della lezione di Starkey).
La lezione dello storico inglese mi ha portato a riflettere meglio sugli usi e i costumi non solo della corte dei Tudor, ma di altri reali e nobili nel corso delle varie epoche. Per cui sono andata a rileggere qualche cosa qua e là nella mia biblioteca di storia, alla ricerca di un tema molto specifico: l’educazione linguistica a corte, saltellando tra storia moderna e contemporanea.
E’ poco noto, per esempio, che Enrico VIII parlasse, oltre all’inglese, il francese e il latino.
E volete sapere come studiava le lingue? Lunghe ore a tavolino tra grammatiche e traduzioni? No…non proprio.
Da bambino, Enrico VIII (che pure non era destinato ad essere re e lo diventerà solo con la morte del fratello maggiore) aveva un gentiluomo franco-fiammingo che gli parlava francese.
Insomma, era un po’ come un bambino di oggi con una baby sitter madrelingua…
Nella stessa epoca, Thomas More, meglio noto in Italia come Tommaso Moro, l’autore di “Utopia” e Lord Cancelliere durante il regno di Enrico VIII, curò personalmente l’educazione dei suoi figli e – cosa rara per il tempo – pretese che anche le figlie studiassero le stesse “materie” dei figli maschi. Quali materie? Molte, tra umanistiche e scientifiche, tra le quali, guarda caso, il latino e il greco, lingue che, in pieno ‘500, erano tutt’altro che morte.
Morto a sedici anni, fece comunque in tempo a regnare. Durante tutto il suo regno tenne un diario ed è grazie a questo diario che Edoardo VI è il Tudor di cui si sa di più.
Ebbene, quanto a lingue, il piccolo Edoardo non se la cavava male. A 6 anni scriveva le sue prime composizioni in latino; a 8 leggeva Catone in lingua originale; a 9, oltre a conversare fluentemente in latino, scriveva composizioni in francese. Ovviamente non aveva grandi distrazioni: niente televisioni e telefoni, giochi elettronici o tablet, magari solo qualche cavalcata o una battuta di caccia, però non mi sembra male come risultato.
A 14 anni conosceva così bene il greco da leggere Aristotele scorrevolmente in lingua originale. A volte si divertiva a mescolare le cose e scriveva nel suo diario in latino, oppure in inglese, ma usando l’alfabeto greco; del resto quale ragazzino colto non si divertirebbe ad utilizzare un alfabeto segreto?
Mi si dirà che questo florilegio di studi e di sapienza linguistica caratterizzava la vita dei reali o dei nobili; gli altri facevano una vita molto grama.
E’ vero, ma questo ci dimostra come, nelle varie epoche, chi ha potuto, ha sempre cercato di ampliare la propria cultura linguistica e, cosa ancora più interessante, spesso lo ha fatto con metodi non diversi da quelli usati oggi.
Ossia, mediante l’esposizione precoce alle “altre” lingue.
Cambiamo paese, facciamo un balzo avanti di qualche secolo, per ricordare una donna famosa nella sua epoca sia per la sua sterminata produzione letteraria, sia per il suo acume: Madame de Genlis. Ne avevo letto qualcosa perchè fu, nella sua epoca, un’esperta di etichetta e una scrittrice torrenziale. Non avevo mai riflettuto, però, sulla sua cultura (anche linguistica).
Nel 1763, con il matrimonio con Charles Bruslart Alexis de Genlis, da cui ebbe due figlie, entrò nei circoli dell’élite parigina.
Gli Orleans – che facevano parte della dinastia dei Borbone – visti i suoi talenti, decisero di farne prima una damigella d’onore della duchessa e poi, soprattutto, la governante e istitutrice dei principi reali.
Madame de Genlis sarà così l’istitutrice di Luigi Filippo, che diventerà re di Francia nel 1830. Va notato che, in quell’epoca, se era comune che una donna educasse i bambini nell’infanzia (ossia ricoprisse il ruolo di governante), non era affatto comune che ne diventasse il precettore. L’educazione degli adolescenti spettava agli uomini e madame de Genlis fu l’eccezione alla regola; ancora oggi, del resto e tristemente, vi sono più donne maestre elementari che donne professori universitari…
Ma cosa ha a che fare il destino di Madame de Genlis con lo studio delle lingue?
Un attimo e ci arrivo.
Intanto pare che il “curriculum” previsto da madame de Genlis per gli Orleans (e poi per i figli del duca di Chartres e per le proprie figlie) fosse molto moderno per l’epoca: non solo i classici, la storia e la mitologia classica, ma anche la biologia, la geografia, la fisica, l’anatomia nonché il teatro e la musica.
Inoltre, lo fece anche con un metodo moderno.
Ai piccoli reali fece studiare l’italiano, l’inglese e il tedesco. Pratica ed efficiente come una donna del nostro secolo, Madame de Genlis non amava sprecare tempo. Con metodo e displina costringeva i piccoli reali a occuparsi di piante parlando in tedesco con il giardiniere, ad esprimersi solo in inglese a pranzo e a conversare rigorosamente in italiano a cena.
Notevole no? Oggi qualunque famiglia o scuola l’assumerebbe subito! Inoltre, chi si occupa di bilinguismo o di studio delle lingue secondo il metodo comunicativo sa bene come si chiama il metodo usato da madame de Genlis: si chiama “time and place” (io ne ho scritto qui).
Insomma, imparare le lingue non è – come si potrebbe credere – solo un’esigenza contemporanea, del mondo globalizzato. La conoscenza approfondita di altre lingue è stata sempre il mezzo per perseguire finalità di comunicazione (per esigenze di politica estera o di diplomazia), di distinzione (per mostrare la propria raffinatezza), di elevazione (per ampliare la propria cultura).
Nulla di nuovo sotto il sole, dunque!
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