Alcuni anni fa, una giornata piovosa e fredda che irrompeva nella primavera romana come un fulmine a ciel sereno, io e una mia amica andavamo a visitare una delle scuole internazionali della capitale, nella fattispecie una scuola che segue il curriculum inglese.
La mia amica aveva infatti ottenuto un appuntamento con un’altra mamma che ha i figli in quella scuola la quale, molto cortesemente, ci ha accolte, spiegato come funzionava e fatto fare un giro del giardino e della parte esterna dell’edificio. Tra una chiacchiera e l’altra, abbiamo scoperto che la dirigente scolastica era libera e siamo andate a parlare anche con lei.
E’ parlando con la dirigente scolastica che ho finalmente capito la differenza tra i due percorsi conclusivi del cursus studiorum britannico: gli A level e l’IB (a dire il vero, quest’ultimo, seguito da molte scuole internazionali di lingua inglese, anche americane e sostenibile – in teoria – anche in francese o in spagnolo).
Intendiamoci: conoscevo già i due sistemi, ma non avevo veramente colto quale potesse essere la bussola per guidare il genitore o l’allievo indeciso tra i due.
Il fatto interessante è che questa scuola internazionale è una delle poche che, avendo imboccato il sistema dell’IB anni fa, l’ha poi abbandonato per strada per ritornare al classico sistema inglese dei GCSE (nella versione migliorata che è quella “International”, dunque non GCSE ma IGSCE) e poi AS e A levels. Ma andiamo con ordine.
Cosa è l’IB? Cosa sono gli A levels?
Facciamo un passo indietro. La scuola superiore inglese dura 4 anni, dai 14 ai 18 anni. A 16 anni si sostengono degli esami che si chiamano General Certificate of Secondary Education (GCSE). Il numero e la scelta stessa delle materie dipendono dai singoli studenti. C’è un esame per ogni singola materia. Se uno studente supera questi esami, può accedere a determinati impieghi e corsi professionali, ma non bastano i GCSE per accedere a tutte le università.
Tra i 16 e i 18 anni, dunque, si sostengono gli A levels (il termine, se non ho capito male, sta per General Certificate of Education Advanced Level (GCE A level) e GCE Advanced Supplementary (GCE AS level).
Quello che comunemente è chiamato A level è un esame rivolto a studenti di 18 anni (in pratica è la nostra Maturità, che oggi si chiama Esame di Stato). Lo studente a questa età si specializza in determinate materie, solitamente quelle fondamentali per iscriversi al corso di laurea desiderato. In Inghilterra nessuna università prevede il diritto automatico di iscrizione e c’è dappertutto il numero chiuso. Non è quindi facile accedere alle università, tanto più a quelle prestigiose, come Oxford e Cambridge.
Tra GCSE ed A -levels ci sono anche gli AS levels (ossia i GCE Advanced Supplementary level). Gli Advanced Supplementary danno la possibilità agli studenti combinare studi anche divergenti, materie scientifiche e umanistiche, richiedono la metà delle ore di studio rispetto all’Advanced e due AS Level valgono quanto un Advanced per l’iscrizione all’università.
E l’IB?
L’IB, o International Baccalaureate (in italiano Baccellierato Internazionale) è sempre un “esame di maturità” e quindi un programma di studi superiori, ma con caratteristiche leggermente diverse.
Nato per i figli dei diplomatici, l’IB è un programma di Diploma sempre più diffuso che offre agli studenti l’opportunità per acquisire una formazione riconosciuta in tutto il mondo (per saperne di più si può consultare il sito www.ibo.org).
Alcune scuole internazionali di stampo britannico delle grandi città italiane (Roma, Milano ecc..) offrono entrambi i programmi. Per alcuni genitori italiani si pone dunque il problema di quale sistema scegliere tra i due.
Cosa è meglio tra A levels e IB?
Quale dei due sistemi dà maggiori opportunità ai fini delle ammissioni universitarie?
Entrambi i diplomi sono accettati sia dalle università italiane (a determinate condizioni) sia dalle università estere. Posto che nessuno potrà dire in assoluto quale sia il migliore, una differenza fondamentale tra i due esami e, dunque, tra i due programmi, sta nel numero e nella tipologia delle materie studiate, che influenzerà il percorso futuro di studi dello studente.
Mi spiego meglio, sempre per quanto ho potuto approfondire.
Nell’iter IGCSE – A Levels si portano inizialmente 10 materie, che poi diventano 6 e scendono – se non ho capito male – a 4 al livello di Advanced Level. Ovviamente chi vuole e può ne sostiene di più, ma, sempre se ho capito bene, lo studente tra i 14 e i 18 anni si specializza molto. Questo fa sì che, in qualche modo, possa restringere i suoi interessi ad un determinato campo (storico, linguistico, scientifico, matematico e così via). Se è uno studente “math & science oriented” può scegliere tre materie scientifiche. Se è più un “liberal arts student” può portare un trittico di materie umanistiche, e via dicendo.
Nell’IB invece si portano sino alla fine 6 materie, che devono essere scelte tra sei diverse aree (lingua, seconda lingua, scienze sociali, scienze sperimentali, matematica, arti figurative). Bisogna inoltre sostenere un essay di “teoria della conoscenza”.
Dunque, l’IB comprende per forza un programma più ampio, mentre il sistema britannico dell’A level, ti consente, se vuoi, di restringere l’area di studio, anche se questo influenzerà la tua formazione e limiterà l’accesso a determinati corsi di laurea.
Pertanto, da quello che ho avuto modo di capire, la scelta tra IB e A level quindi, a parità di capacità linguistiche e di apprendimento dello studente, dipende dalla volontà o meno di specializzarsi già a 16 anni concentrandosi al massimo su ciò che si ritiene sarà la propria strada professionale, oppure mantenere una varietà formativa (anche per cultura personale), con il rischio però di affaticarsi e non riuscire ad ottenere i voti sufficientemente alti per accedere alle prestigiose e molto selettive università inglesi o americane.
Insomma, la sensazione è questa, che chi è un ottimo studente in tutte le materie farà bene in entrambi i sistemi, ma chi invece è bravo ma sbilanciato verso una determinata area (ad esempio il classico umanista che non ha il pallino della matematica) può ottenere voti più alti seguendo la strada degli A levels, dunque specializzandosi nelle sue materie “forti”.
Aggiungo un’altra considerazione, del tutto personale. La scelta della specializzazione è vincente solo se si hanno le idee chiare su cosa fare “dopo”. Se lo studente ha già chiaro in mente che vorrà studiare medicina, o scienze o matematica, ingegneria, bene, ma se ha ancora le idee poco chiare è meglio che abbia una formazione più ampia.
Tutti questi ragionamenti valgono per lo studente di una scuola internazionale che voglia proseguire gli studi all’estero. Ma, come è bene noto, le scuole internazionali costano e non sono, quindi, per tutti.
Ma chi fa un liceo italiano e volesse continuare gli studi in Inghilterra invece di fare l’università italiana, cosa può fare?
In realtà anche chi viene dal liceo italiano può decidere di terminare i propri studi all’estero, trasferendosi in una boarding school inglese negli ultimi due anni di liceo e sostenendo gli esami lì. Società e consulenti offrono aiuto alle famiglie che vogliano intraprendere questa (non meno costosa, ma forse più formativa) avventura. Tra le società che offrono consulenza in questo campo vi sono annoall’estero.it ed educationalconsultants.it
Inoltre, anche senza terminare l’anno scolastico in Inghilterra, gli studenti italiani possono accedere a determinate condizioni alle università inglesi. Quali sono queste condizioni? Per saperlo basta partire dal sito dell’UCAS.
E se qualcuno ha fatto questa esperienza, da studente o da genitore, spero la voglia narrare ad educazioneglobale!
Se vuoi partecipare alla discussione aggiungi un commento. Leggi anche:
- Cosa è e come funziona l’IB? L’International Baccalaureate in parole semplici
- L’international Baccalaureate spiegato da un insegnante
- Scuola internazionale: un papà racconta
- Licei pubblici italiani Cambridge International
- Una scuola superiore internazionale e gratuita? E’ possibile nei Collegi del Mondo Unito
- Licei italiani che offrono gli IGCSE: vantaggi e svantaggi
- Il quarto anno di liceo negli USA…e poi?
Scusa Lavinia , ma mi permetto di dissentire. Io sto vedendo cosa significa avere avviato i miei figli a un percorso internazionale, nel loro caso non Ib perché la primaria Ib nella nostra città non è disponibile , sin dalla tenera età. Per loro – e se leggi un poca di letteratura neuropsichiatrica te lo conferma- il discorso di pensare in italiano e poi tradurre non esiste proprio, e la differenza è la stessa che c’è fra un biplano e un jet. Non me ne voglia Vale, ma mi par di capire che i suoi interlocutori fossero danesi…con un madrelingua inglese o americano, se pensi in italiano e poi traduci cavarsela diventa più problematico.
E vabbè, ho capito, devo intervenire anche sulla questione del livello linguistico: qui faccio eco a Francesco, temo…
Per ragioni di lavoro mi sono trovata in passato a lavorare in ambienti internazionali.
Nella vita ho avuto modo di acquisire qualche elemento di tedesco, ho fatto tre lezioni di cinese e due anni di spagnolo, ma non c’è dubbio che le lingue straniere che posso dire di conoscere sono due: inglese e francese.
Ma tra l’una e l’altra c’è un abisso.
Io in inglese penso direttamente, non traduco mai, se non mi viene in mente come si dice ornitorinco (a proposito: platypus, mi pare) descrivo l’ornitorinco…. in inglese so discutere, negoziare, arrabbiarmi, contare (e cantare!) esprimere amore, scherzare, fare dell’ironia, leggere tra le righe, intuire gli stati d’animo altrui eccetera eccetera.
Insomma,anche se il mio vocabolario in inglese è meno vasto di quello italiano, quando parlo inglese mi sento a casa.
E’ come se parlassi italiano, per me cambia solo la fonetica, non la naturalezza del processo di ideazione e verbalizzazione.
Tutto questo perchè l’ho imparato da ragazzina.
Il francese l’ho studiato vari anni, ormai si è arrugginito, lo capisco e lo leggo ma non lo parlo più con scioltezza e certe volte mi pare di non parlarlo più per niente. Ho letto in francese Marguerite Yourcenar e un pò di Chateaubriand, ma faccio fatica a contare, non riesco a discutere e, anche quando lo praticavo più di ora, alla prima difficoltà la mia mente si metteva a tradurre.
Questa appena narrata non è solo la mia storia, ma è la storia di tutti coloro che hanno imparato alcune lingue da piccoli e altre da grandi. E’ la differenza tra bilinguismo e conoscenza di una lingia.
E, a proposito, un paio dei miei prossimi post saranno proprio su questo tema!
Non credo proprio, ho colleghi americani madrelingua con cui parlo al telefono un giorno sì e uno no, capisco e mi spiego senza problemi, e io sono sempre io…e poi, qualcuno hai mai sentito parlare un danese che ha vissuto e lavorato 10 anni in Inghilterra?
Il guaio di avere tre figli e un lavoro è questo: che ogni tanto devo lasciar correre la discussione sul blog senza poter intervenire subito, specie quando sono lontana dal weekend 🙂
Avete introdotto così tanti argomenti che è difficile starvi dietro, o di tirare le somme del discorso, ma poiché Lavinia mi ha chiesto cosa ne penso, intervengo almeno sulla questione IB.
Anzitutto riparto dall’inizio: il commento di Vale partiva non dalle motivazioni che l’avevano fatta rinunciare all’IB ma dall’aver rinunciato ad una scuola che applica il metodo dell’IB anche alla scuola primaria, ossia il Primary Years Program.
Insomma, si è partiti parlando di bambini di 6 anni e non di ragazzi di 16.
Come ben noto a tutti coloro che sono intervenuti sinora, l’IB dura due anni, dai 16 ai 18 anni; prima uno studente può fare un sacco di percorsi diversi, dalla scuola americana al national curriculum inglese con GCSE o IGCSE e persino – udite udite – la scuola italiana. Ovviamente, per accedere all’IB dalla scuola italiana serve normalmente un inglese near native e una media di voti altissima (oltre agli esami di ammissione, che certamente richiederà la scuola IB cui si intende accedere).
Insomma, non è che sia impossibile fare l’IB dopo tre anni di liceo italiano, è solo, come dire, improbabile (perché difficile). Conosco però persone che hanno fatto e, in un caso, parlo di qualcuno che non sapeva bene l’inglese (ma era, evidentemente, un fuoriclasse negli studi!).
Tutto questo per dire a Vale che non può automaticamente traslare i dubbi che le sono sorti riguardo ad un certo programma per bambini di 6 anni a quello stesso programma per ragazzi di 16. A naso, per esempio, io, forse, per bambini di 5-6 anni sceglierei il curriculum inglese e non il PYP, mentre sull’IB non ho proprio dubbi che si tratti del programma più bello in cui io mi sia mai imbattuta e che mi fa venire voglia di tornare a scuola (da discente!).
Dunque, per restringere l’ambito della discussione, parliamo del programma IB e basta, ossia di scuola superiore (rectius: della scuola secondaria di secondo grado, come si chiama ora in Italia).
Insomma: ritorniamo al tema IB si o IB no.
Per capire come la penso (posto che la mia opinione vale quanto quella di ciascuno che ha commentato) basta incrociare quello che ho scritto in un paio di post. Come ho argomentato altrove – mi autocito solo per non ripetere qui ragionamenti troppo lunghi – auspicherei anche per l’Italia, l’introduzione di un percorso di scuola superiore in cui la scelta delle materie finali sia di tipo più vocazionale e nel quale la scelta delle materie orienti anche l’accesso all’università (per chi vuole leggerlo per esteso l’ho scritto qui https://www.educazioneglobale.com/2014/04/i-programmi-dei-licei-non-e-ora-di-cambiare/). Un siffatto percorso dovrebbe avere anche, allo stesso tempo, esami finali standardizzati e, dunque, comparabili (ne ho parlato qui https://www.educazioneglobale.com/2014/02/maturita-perche-lesame-di-stato-non-va-bene/) cosa che in Italia non abbiamo, come notava giustamente Francesco100 in commenti precedenti, e che ci penalizza fortemente quando tentiamo di accedere ad università estere (perché all’estero lo sanno che un 100 preso a Palermo e un 100 preso a Milano non valgono lo stesso e, nel dubbio, dubitano semplicemente della nostra credibilità come paese).
Incrociando gli elementi esposti nei due post che ho citato, penso che sia chiaro che mi piacerebbe una scuola superiore in cui, almeno gli ultimi due anni, fossero modellati sull’IB.
Andiamo al sodo. Perché mi piace tanto l’IB?
– Perché è un programma bilanciato (in cui lo studente deve preparare scienze e lingue, arti e matematica, scienze sociali e letterature) ma, nello stesso, tempo lascia lo spazio alla personalizzazione e alla scelta di livelli più o meno approfonditi per ciascuna materia. Inoltre “livella” le materie per cui non ci sono materie-cenerentole, come nella scuola italiana, ossia materie che sono nel piano di studi ma che, di fatto, non studia nessuno;
– Perché ha un esame finale standardizzato con rigidi criteri di valutazione per cui ogni studente compete con tutti gli altri che sostengono lo stesso esame dall’altro capo del mondo e non è soggetto all’arbitrio della commissione. Inoltre, tale competizione, in puro stile anglo-sassone, responsabilizza lo studente, così come il Code of Honor (ecco, il Codice d’onore penso sia il contrario di quello che accade nella scuola italiana, ma vi rimando al libro di Marcello Dei “Ragazzi si copia”);
– Perché le materie scientifiche non si fanno solo sui libri ma anche in laboratorio, “hands on”…;
– Perché è arricchito di elementi epistemologici (Theory of Knowledge) e anche di servizio alla comunità (che danno questo senso che la scuola non è solo il luogo della lezione ex cathedra, ma è il luogo in cui conta quello che lo studente fa a tutto tondo, quale è il suo ruolo nella società, qualcosa che nella scuola italiana temo ci sia solo alla scuola elementare e solo grazie ad insegnanti appassionate come artigiani di talento…vedi il caso di Lidia);
– Last but not least, perché l’IB è lo standard educativo più globale che esista (al momento, almeno; certo magari si può argomentare che è troppo occidentale… ma al momento non c’è nulla di meglio). E qui, ragazzi, io sono di parte. Questo blog si chiama Educazione Globale non a caso. Lo dico chiaramente: il mio passaporto mi sta stretto. Io mi sento una cittadina europea, come minimo, anzi, una cittadina d’occidente, che aspira a diventare globale. Gli Stati nazionali mi sembrano sempre più una cornice di riferimento del passato anche se tante cose – come, in primis, il sistema di istruzione – da questi dipendono.
Proprio in questi giorni, mia figlia e i suoi compagni di classe (terza media, scuola bilingue) stanno ricevendo i risultati dell’iscrizione o dell’ammissione alle varie scuole superiori.
Chi ha scelto la scuola italiana pubblica o paritaria con programma ordinamentale (e, dunque, salvo carenza di posti, è già iscritto), chi la pubblica o la paritaria con programma Cambridge/internazionale (e dunque, è stato selezionato in base ai titoli), e chi, infine, la scuola internazionale tout court, con IB (e, dunque, è stato selezionato in base ai titoli e un esame di ammissione, e sta ricevendo la risposta finale in questi giorni).
L’unica ragione per la quale mia figlia non è in quest’ultimo gruppo è la retta del St. Stephen’s (lo prendo ed esempio perché è questa la scuola dove sono andati la maggior parte dei compagni che hanno scelto il percorso internazionale): 23.000 euro annui, oltre al capital assessment.
Se avessi avuto un figlio solo non avrei avuto dubbi, avendone 3 investire sull’IB di uno vuol dire eliminare la nursery school di un altro o la scuola bilingue dell’altra, per non parlare di viaggi e vacanze.
Infatti…io parlavo proprio di scuola elementare (o meglio primaria) e media (secondaria)…ho molti meno dubbi sugli ultimi 2 anni di un percorso globale 6-18 anni fatti in maniera più orientata all’università (a quel punto, al netto dei costi, IB o A levels mi paiono equivalenti per accedere ad un’università inglese… e c’è comunque ancora tempo per fare entrambi.
Tanto se uno è bravo viene selezionato comunque, e se non viene selezionato ci sarà un perché, e quindi tanto meglio che si dedichi a qualcos’altro e bene che nei 15 anni precedenti non ci sia stato un investimento economico eccessivo).
Ok..se pure concordo con Elisabetta e con Francesco S che pensare e parlare in inglese dovrebbe essere naturale, ad un certo livello linguistico, tuttavia resta il fatto che la maggior parte delle persone che conosco che escono da un percorso scolastico straniero (tedesco, inglese ecc) iniziato dalle elementari non hanno normalmente una vera padronanza della lingua italiana. Questa è una scelta di campo: in fondo, si può anche pensare che, dovendo scrivere in inglese (sia per lavoro che per studio) allora forse è meglio così. Ma la globalizzazione se arricchisce da un lato, rischia di far perdere dall’altro: sono una sostenitrice delle nostre radici culturali e della complessa bellezza della nostra lingua. Per questo sono convinta che se il programma “La buona scuola” andrà avanti, potremmo sperare in un liceo italiano maggiormente competitivo e moderno. Qualcosa sta già cambiando.
Già molti licei si stanno accreditando per il programma Cambridge IGCSE (tra cui quelli della scuola di mia figlia) e, unitamente all’intensificarsi dei programmi di scambio con istituti esteri sarà certamente un’alternativa buona e più economica al sistema inglese o americano. Io sono fiduciosa.
Rimane il fatto che chi vuole un risultato “naturale” deve iniziare con le lingue da piccoli, in modo giocoso e “per immersione”. per citare un librettino di Tullio de Mauro (“In Europa son già 103. Troppe lingue per una democrazia?” Bari, Laterza, 2014) “attualmente l’ingese è il passepartout più comodo. Meglio si impara e meno si cadrà in abusi. Che la sua adozione cancelli le identità nazionali è tutto da dimostrare” e altrove vi si dice “vogliamo davvero che alla storia e al presente dell’Europa corrisponda una reale democrazie europea? Se la risposta è si, bisogna costruire la comunanza di lingua, non come globalesisch o inglese aeroportuale, turistico, commerciale, ma come pieno possesso di una lingua ricca di tutto il suo spessore (…)”.
Per il lavoro, in alcuni casi, può bastare un pò di globish, insomma, l’inglese turistico – commerciale. Per sentirsi parte di una comunità più vasta – quanto meno a livello europeo – servirebbe conoscere almeno un paio di altre lingue europee sin da bambini, per immersione. E poi più film in lingua originale, più scambi e twinning tra scuole e docenti di scuole, più lettori madrelingua in veste di teaching assistants (inglesi e francesi e tedeschi e spagnoli e italiani all’estero, ma non solo).
Ma qui vado off topic
Cara Lavinia, qui bisognerebbe conoscere i casi specifici. Un conto è provenire da una scuola straniera, che giustamente ha a cuore la propria lingua nazionale e si cura di eventuali altre lingue parlate dai discenti solo marginalmente, lasciando in sostanza che a insegnarle, se sa e può, sia la famiglia. Altro è provenire da una scuola pensata e costruita per impartire una educazione bilingue, ovvero con un obiettivo di padronanza di due lingue e due culture. E non mi dire che è impossibile, perché la realtà dimostra il contrario. Certo, deve essere una buona scuola. Ma in assoluto dubito che una cattiva scuola riesca ad insegnare alcunché di valido. Quanto alla “buona scuola” come concetto politico, ripeto il mio consueto “chi vivrà vedrà”. Sono uno di quei volonterosi – o illusi- che hanno letto e compilato il relativo questionario on line, ma a fronte di quel libro dei sogni -peraltro assai sbilanciato su un solo problema, certo non marginale, ma nemmeno esclusivo, ovvero la stabilizzazione dei precari- la realtà degli istituti superiori, ospitati fino ad oggi in edifici di proprietà delle Province, è che, a fronte della abolizione (?) di quell’ente, oggi se salta un tubo o si rompe il riscaldamento, non si sa chi chiamare. Sicuramente qualcosa è già cambiato, ma non mi sembra sia cambiato in meglio.
Nella International School frequentata dai miei figli (che segue la PYP e MYP) gli alunni della terza media ogni anno fanno gli esami di stato alla scuola statale con voti mediamente molto alti e con tanti 10. Per cui alla prova dei fatti, almeno in questa scuola non sembrano esserci problemi con l’italiano. La maggior parte dei ragazzi solitamente prosegue le scuole superiori in scuole o licei statali anche se ogni anno aumenta il numero di chi si iscrive alle due scuole IB vicine. Scuole a cui anche Francesco S credo sia indirizzato ad inviare i sui figli. Tra l’altro io sono bilingue (madre straniera) , non inglese, e quando parlo nella mia seconda lingua ( la prima è ovviamente l’italiano ) assolutamente non traduco, ma penso e parlo direttamente in quella lingua. Tra l’altro ci sono molti modi di dire o di pensare intraducibili che o li pensi direttamente in quella lingua o traducendo usi altri termini e parli in modo diverso (appunto da straniero). La mia esperienza scolastica in Italia nonostante il liceo e la laurea la trovo meno efficace e stimolante di quella dei miei figli. Una scuola come quella dei miei figli, non frontale e con un approccio molto più vicino alle esigenze e alle caratteristiche individuali dei ragazzi rimpiango solo di non averla potuta frequentare anch’io.
Vale, pare ci sia della confusione sulla questione delle unit of inquiry. In primo luogo, quel termine è più da pedagogisti per pedagogisti e non serve a identificare i contenuti. Succedeva anche a me quando ero preso dall’ansia su cosa avrebbero insegnato alla primary di mia figlia e cercavo, nella consapevolezza di “saperla lunga” sui siti per insegnanti per scoprire tutta una rete di “learning objectives” che mi facevano pensare che non avrebbero fatto nulla di quello che secondo me doveva essere la geografia o la matematica. In realtà, facevano la matematica e la geografia, solo che la geografia perché fosse realmente capita da ragazzini e potesse essere utile al di là dell’aspetto nozionistico veniva confezionata in modo diverso. Ad esempio, inutile parlare di terremoti se non si sa che la scala richter è in scala logaritmica (e questo piccolo dettaglio ha delle conseguenze quando si interpretano le notizie di stampa!).
Non sono un educatore e quindi non mi dilungo, i programmi e i metodi scolastici del mondo occidentale (ad eccezione dell’Italia attacata ad una tradizione ottocentesca) hanno incorporato le teorie testate e ritestate sull’apprendimento che iniziano da Thorndike, fino a Piaget passando per Montessori che dicono che l’apprendimento è esperienziale e non nozionistico. Opporsi a questa realtà vuol dire condannare il 90% dei ragazzini ad apprendere meno di quanto farebbero altrimenti, cioé ad apprendere con il freno a mano tirato. Pertanto, la storia non sarà una serie cronologica di eventi che non hanno in comune nulla se non la contiguità temporale. A noi piace pensare che i ragazzini possano studiare con lo stesso grado di astrazione degli adulti. Non è così. Certamente non per la stragrande maggioranza dei ragazzi. Quanto detto finora vale più per la scuola superiore di primo e secondo grado italiana che segue il modello liceo classico. Per la scuola elementare le differenze rispetto alle esperienze internazionali sono minori in quanto gli insegnanti elementari si sono dimostrati nei fatti meno attaccati alla tradizione gentiliana.
Sono modelli culturali diversi e inconciliabili. Il giudizio può essere valoriale (la ns cultura, la ns tradizione) oppure basato sui risultati (chi impara meglio la matematica? chi comprende meglio un testo? Chi conosce meglio il greco attico?).
I ragazzini che frequentano la scuola americana e fanno l’esame della terza media chi sono? Rappresentano la media di studenti che frequentano quella scuola? Quali motivazioni spingono questi studenti a sostenere l’ennesimo esame, peraltro che non produce nessuna conseguenza pratica se continueranno con il percorso USA? E se invece fossero studenti che lasciano la scuola americana, perché la lasciano? A mia figlia, che frequenta una scuola inglese, non ho fatto sostenere l’esame di terza media perché mi pareva non rilevante (però le faccio fare italiano extra con una insegnante, cosa che non mi è riuscita anche con il francese, ahimè), però le sue amiche che lo hanno sostenuto, non si sono preparate in modo specifico e hanno ottenuto delle performance eccellenti se erano eccellenti anche in quella inglese, e medi, se erano medi. Ma il punto tra i vari sistemi non è la differenza a 13 anni, che già ci sono, ma la differenza a 16 e a 18 anni. Che in alcuni casi saranno incolmabili, e non certo per trovare lavoro.
Io devo ancora capire come l’apprendimento esperienziale si adatti a insegnare alcune cose a bambini tra i 6 e i 13 anni (e anche un pochino dopo, forse): che “esperimento” dovrei fare per studiare la rivoluzione russa? O i vulcani? O le maree?
Alcune cose si apprendono per forza in maniera nozionistica dato che, grazie al cielo, non tutto si può misurare, testare, provare, sperimentare, “laboratoriare”
Se comunque la differenza vera è a 16 e 18 anni, bene, anzi meglio, me ne preoccuperò tra un po’ (il mio problema ora è la scelta di una primaria), tanto, ho visto c’è ancora tempo sia per sostenere degli A levels da privatista (a costi irrisori rispetto a 15 anni pregressi di scuola internazionale) o entrare in una scuola americana/internazionale a fare il programma IB, come le compagne di Elisabetta (ammesso e non concesso di avere i soldi da spendere).
E tutte le scuole americane in Italia accettano bambini anche dopo i 6 anni, con un test i lingua…
Se il ragazzino è bravo, entrerà, e se lo faranno entrare significa che ha qualche chance di superare l’IB con un buon voto, e quindi spendo volentieri. Altrimenti queste scuole (quelle serie) faranno semplicemente entrare qualcuno più bravo di mio figlio, e allora, con rammarico, meglio per me che non investirò a vuoto (e bene che non ho sprecato soldi prima).
Che senso ha imbarcarmi ora nel PYP e MYP quando non so se avrò un figlio sufficientemente bravo a fare l’IB e, ripeto, uscire dal 36 in su? Fosse gratis, di corsa…se sarà bravo gli avrò regalato una buona opportunità, se non sarà bravo farà altro (lo stesso altro che avrebbe fatto se avesse frequentato prima una scuola pubblica) e pazienza.
Se la scuola è seria, in teoria, anche se sono lì dentro da 15 anni dovrebbe avvisarmi che mio figlio è un po’ tonto e che non devo farmi troppe aspettative sul risultato finale. Se la scuola non è seria, continuerà ad alimentare le mie illusioni e prendersi la mia retta (tanto, una volta che hai finito, con 24 o 45 punti, arrivederci e tanti saluti).
E se invece sarà bravo e per risparmiare non gli avrò regalato una buona opportunità (mio vero dilemma)?
Per fortuna ho scoperto che, con un test di ammissione, c’è ancora tempo per rientrare nel sistema…
Se invece vogliamo entrare subito nel sistema “così sono sicuro che bene o male, o perché sono bravo di mio o perché mi insegnano nel modo giusto da quando ho 6 anni o perché pago da molto tempo o mix delle tre cose” poi “entro” nel programma IB, beh, di fatto è un buon modo per assicurarsi il posto…diciamo un “evitarsi il test di ammissione”…cosa da non snobbare a priori, assolutamente, io però non ho tutti questi soldi per assicurare il posto a priori a 3 figli, di cui magari 2 incapaci…
N.B Chi ha lasciato la scuola americana lo ha fatto o perché non aveva più soldi da spenderci o perché non era più interessato al percorso USA. Qui non rilevano le motivazioni di chi lascia ma le condizioni di apprendimento con cui, se succede, si esce. A me piace sempre avere una buona fallback position…
Ok comprendo che al di là della maggiore possibilità di lavoro e di accesso alle università straniere le scuole inglesi o americane offrono programmi e adottano tecniche di insegnamento molto migliori di quelle italiane. Se questo vero – e non ho motivo di dubitare perchè non ho esperienza diretta di questo tipo di scuole – allora quel che balza agli occhi è che, soprattutto in un momento di crisi economica, il gap culturale tra le famiglie (molto) più ricche della media e quelle meno ricche è notevole. Ma tanto noi non possiamo permetterceli 80.000 euro all’anno per una scuola così e quindi pazienza (a cui peraltro aggiungere magari corsi privati di italiano e/o di inglese!).
A questo punto non posso fare altro che essere felice della elevata qualità dell’insegnamento della maestra di mia figlia, potenziare l’inglese come posso, contribuire personalmente alla sua educazione attraverso viaggi, letture scelte e soprattutto attraverso la trasmissione dei valori fondamentali che ritengo possano aiutarla soprattutto nel confronto con culture e mentalità diverse (un’educazione…globale!). Parole chiave: il rispetto e la conoscenza.
Vorrà dire che per comprendere qualche cosa di più sui terremoti la porterò alle campagne annuali gratuite “Io non rischio” che la Protezione Civile, in collaborazione con i volontari, fanno nelle piazze o le farò vedere al pc i bellissimi cartoni animati sul tema della regione Marche. La porterò a L’Aquila per farle capire cosa è successo.
Insomma, con l’arte di arrangiarsi tutta italiana cercherò di contribuire attivamente.
Un’ultima considerazione. A parte gli esperimento di psicologia generale di Thorndike e Piaget (fondamentali ma indubbiamente un po’ datati) io credo fermamente, come dice Galimberti, che la scuola, soprattutto a partire dalle medie, debba insegnare “per fascinazione”. Galimberti sostiene che la scuola per essere efficace deve essere “erotica”, affascinare, puntare sulle corde emotive dei giovani. E per questo, la qualità degli insegnanti, che va al di là della tecnica e della preparazione, comunque necessaria, è fondamentale. Questo stimola la curiosità e lo sviluppo degli interessi degli studenti, che non sono convinta siano così incapaci di astrazione. Ma con questo sto andando fuori tema e forse il mio commento sarebbe più adatto al post sulla maestra Lidia…
Con idee simili anch’io mi ero fatta le domande di Vale, ma meno critica nei confronti dell’impostazione anglosassone vs quella italica, che comunque, è vero, un bel po’ vetusta lo è.
Mi trovo però a pormi il problema, insisto, della condivisione del progetto da parte di un adolescente. Mi spiego: quando incontro in orario post scolastico i ragazzini delle suddette scuole con il blazer con lo stemma ecc., penso in maniera più o meno rassegnata che mio figlio, già riottoso a 11 anni, non lo accetterebbe mai da adolescente, cioè nel momento, come diceva Elisabetta, dove sono forti i segni di appartenenza, come i look di pessimo gusto o le occupazioni/autogestioni, per me inconcepibili ma che sembrano inevitabili. Forse in altre città meno “giungla” di Roma, lo stacco non è così evidente, mentre qui il mondo delle scuole internazionali è molto circoscritto e non giudico tout court, ma mi chiedo sempre e solo se sia adatto al mio caso, cioè di mio figlio, cercando di considerare tutti gli elementi possibili e ripromettendomi di aggiornare la rotta laddove fattibile.
Detto in parole povere, ho sempre temuto quelle situazioni in cui si produce un rifiuto totale da parte dei ragazzi, solo perché si vedono “diversi” o ti rinfacciano la scuola internazionale come qualcosa di imposto.
Mi interessa invece un’ipotetica convergenza verso la parte finale del percorso, anche se vedo ancora un po’ ingarbugliata la faccenda IGCSE per una discrepanza di età anagrafica e perché senza A level sappiamo tutti che rimane un attestato di eccellenza per lo studente italiano ma non è garanzia di un seguito.
Quanto al dibattito IB o A level, mi arrogo forse presuntuosamente l’idea di dare il primato comunque alla società/cultura in cui si vive, non perché sia la migliore, ma perché quando esci e vai in giro c’è quello, e parallelamente tentare di mantenere una passerella sul mondo lavorando ai fianchi, con tutte le iniziative possibili, per lasciare una porta aperta verso queste strade (IB & co).
Vi assicuro è molto faticoso, ma ci sto provando, da sempre. Magari sbaglio in pieno, ok.
Ama (non è un errore di battitura, mi chiamo proprio a emme a)
Se, e sottolineo se, l’obiettivo è quello del rafforzamento della lingua (una seconda) o di mandare il pargolo a Oxford allora è al 100% un investimento perso. Ci sono modi più economici per ottenere lo stesso risultato. Se il ragazzo è bravo, non è importante dove va a scuola, finché non finisce in qualche contesto squallido e demotivante. Certo il ragazzo bravo in una scuola americana o tedesca ha molte più opportunità. Il ragazzino bravo in matematica lo mandano subito a fare matematica universitaria, quello in scienze lo incoraggiano a studiare cose più avvincenti e interessanti in un vero lab, etc. Tolte queste amenità, quello bravo se la caverà comunque, apprenderà quello che studia sia con le ginocchia sui ceci, sia con la candela, sia con testi incompleti. Il contesto educativo è più importante per gli studenti medi (cioé la maggioranza). E siccome in media i ns figli sono medi, ecco che ciò diventa rilevante per la maggioranza. Quindi, l’investimento è più strategico, anche se meno produttivo, per lo studente medio rispetto a quello top 1%. Per usare una metafora, insegnare difesa personale è più utile a quello smilzo che al fusto.
Solo chi ha una genuina conoscenza, per quanto non necessariamente approfondita, delle altre culture unitamente a una necessità in qualche modo cosmopolita (genitori che si aspettano di cambiare sede per motivi professionali, genitori di varia origine, interesse per il bilinguismo etc.) dovrebbe considerare seriamente l’opzione scuole internazionali, con o senza IB.
L’IB è un condensato delle varie metodologie pedagogiche “tried and true”, al netto delle zavorre nazionalistiche che magari gravano sulle pedagogie delle scuole tedesche, francesi, inglesi, irlandesi, americane, canadesi o svizzere presenti in Italia (tralascio quella giapponese di cui non so nulla nemmeno per sentito dire). Per questo l’IB dovrebbe essere più facilmente accessibile e accettabile anche per coloro che non intendono abbracciare una cultura aliena (l’IB in teoria può essere anche in francese, spagnolo, italiano etc, solo che la stragrande maggioranza ha scelto l’inglese come lingua veicolo).
Mentre è possibile fare salti da un sistema all’altro, come faceva notare Ama, ciò non è né facile né scontato. L’esempio della divisa (che non vale per tutte le scuole int.) è forse superficiale, ma indicativo del fatto che saltare da una cultura all’altra pone ostacoli che per un adolescente sono molto più difficili da accettare e in alcuni casi anche da comprendere. Gli ostacoli veri non sono la divisa, ma il fatto, ad esempio, che il codice d’onore viene preso seriamente, e che se sei fuori da quel codice nessuno te lo farà notare, pensando, erroneamente, che nessuno se ne curi, finché non sarà troppo tardi. Un altro esempio, più vicino a ciò che interessava questo thread, ai ragazzi non viene richiesto di fare extra, ma di fatto la cultura locale (mi riferisco a quella anglosassone) te lo impone. Ad esempio, molti studenti italiani vanno a fare il quarto anno di liceo in America e si accorgono che tutto è più facile. In realtà non si sono resi conto che sono stati messi in una bolla, in una no man’s land, popolata da quelli che fanno il minimo o sono demotivati accademicamente, non accorgendosi che a qualche metro di distanza ci sono studenti che con le unghie hanno lottato per farsi ammettere ai corsi avanzati e rigorosi di Inglese, di biologia, di matematica etc, e che quei posti, tanto ambiti, non sono disponibili per l’ospite, e non sono disponibili nemmeno per i locali se non a certe condizioni di merito.
Lavinia compensa con i viaggi studio a L’Aquila per far comprendere i terremoti. Certo, ma Lavinia non può portare i propri figli nel laboratorio di fisica, di biologia e di chimica, tutti i giorni di tutti gli anni. E se lo può fare (magari è una biochimica!), difficilmente avrà la pazienza di offire opportunità di teatro e musica, e se può anche quello, allora sta facendo home schooling e potrebbe disinteressarsi della scuola tutta. Sempre che segua Thorndike, Piaget e altri, che appunto sono datati, ma che non hanno ancora attecchito a sud delle Alpi dove si continua a insegnare come nell’ottocento a una popolazione provinciale. Qui ribadisco che ciò è più vero per le medie che per le elementari.
Un aneddoto illustrativo, ma non conclusivo. A metà dell’Ottocento in Italia venne introdotto il greco antico nei licei per imitazione del sistema tedesco, all’epoca considerato maschio e rigoroso (Il greco si insegnava anche nelle scuole inglesi che sfornavano ufficiali per le colonie, ma il modello preso era quello tedesco). Il problema era però che in Italia non c’erano scuole che formassero insegnanti di greco, in quanto solo due università del Nord avevano quell’insegnamento, che fino ad allora veniva snobbato dall’accademia italiana. Da qui una generazione di grecisti caserecci, dove a una domanda di istruzione proveniente prevalentemente da ambienti agricoli si associava un’offerta altrettanto limitata. A tutt’oggi il differenziale iniziale non è mai stato colmato a causa dell’autoreferenzialità del nostro sistema unito al provincialismo dell’utenza che immagina sia solo un problema di soldi, e non di valori di riferimento. Così che se guardassimo i programmi di greco del liceo classico contemporaneo e li confrontassimo con altri sistemi, ci accorgeremmo che il bravo maturando italiano di 19 anni avrebbe serie difficoltà a prendere A* al GCSE di greco che gli inglesi sostengono a 16 anni, e non sarebbe in grado di completare il test finale per l’A-level di greco che si sostiene a 18 anni. E questo, ahimè è vero anche per le altre materie e per le altre tipologie di scuole. Certo, poi gli si chiede dove sta il rubicone e non sa rispondere. Ma ho la ragionevole certezza che nemmeno i nostri sappiano dove sia.
…ma infatti basterà prepararsi da privatista solo quei 2-3 corsi di cui interesserà prendere l’A-level per colmare quello che manca alla formazione italiana che, essendo globalmente più ampia, per forza di cose non può essere in ogni materia ai livelli dei corrispondenti A-levels.
Lo studente medio che fa il GCSE e l’A-level di greco ne farà probabilmente solo altri 2 abbinati per entrare in qualche corso “Classics” …e basta, perché non gli è richiesto seguirne di più (quindi, escluso il top 1% che magari ne segue 5 o 6 per dimostrare che è più bravo e avere giustamente qualche possibilità in più di ammissione all’università). Le Università richiedono, per ogni corso, tre A-level, appartenenti peraltro ad un settore di rilievo per il corso stesso.
Ci mancherebbe quindi solo che il livello dell’ A-levels di greco del 18 enne inglese non fosse maggiore del livello medio del nostro maturando 19enne che, in contemporanea, deve seguire almeno altre 5-6 materie, non solo 2 (che potrebbero per inciso essere Italiano e Latino). Già il ragazzino inglese studia solo 3 materie/segue solo 3 corsi, vogliamo almeno che ciascuna materia sia un po’ più approfondita di chi invece ne segue invece 6 o 7?
Al povero classicista nostrano, oltre a greco, latino e italiano (i 3 A-level che segue il suo collega UK), tocca anche scienze della terra, chimica, biologia, un po’ di anatomia, matematica e qualche principio di fisica. Ci sta che non possa avere il livello di greco del collega UK.
Ma non ci vedo nessun problema: se a 16 anni il nostro studente deciderà che vorrà fare “Classics”, andrà a vedere quali A-level serviranno e, x esempio, si farà l’approfondimento di greco colmando il gap mancante (che non sarà comunque insormontabile visto che non partirà certo dall’alfabeto). Se vorrà fare Storia seguirà i 3 A-levels che serviranno per entrare in Storia e così via.
Visto che comunque tutte e università UK (incluse Oxford e Cambridge) accettano il Diploma di Stato italiano come titolo di ammissione (lo accettano, poi magari non ammettono nessuno perché pensano che da solo valga poco), mi viene da pensare che un ragazzo che abbia tale diploma più anche solo 2 A-levels, valga comunque di più di un inglese che ha i 3 A-levels necessari.
Perché uno studente che abbia fatto i GCSE in matematica, fisica, chimica e poi gli A-levels in mathematics, further mathematics and fisica saprà solo (benissimo, perchè magari avrà fatto i corsi più avanzati e rigorosi possibili) matematica, fisica e un pochino di chimica. Tutto il resto…un buco nero. Ma proprio nero.
Il diplomato italiano che abbia sostenuto anche solo gli A-levels mathematics e further mathematics saprà la matematica tanto quanto lo studente inglese (quindi, ai livelli richiesti dagli atenei UK per le ammissioni) più qualcos’altro.
E sì, credo che uno studente medio ce la possa fare a colmare un po’ di gap rispetto agli A-levels di interesse/riferimento, visto che, comunque, dovrebbe farlo solo per 2-3 materie che comunque un po’ ha già studiato e che gli piacciono (in sintesi, uno del classico dovrebbe fare qualcosa in più di latino e greco e uno dello scientifico qualcosa in più di fisica, matematica, chimica/biologia…perché poi appunto le combinazioni sarebbero queste, non certo uno del classico che va a farsi un A-level in further mathematics, che riconosco sarebbe quasi impossibile).
Cara Vale, una domanda tanto diretta, quanto politicamente assai scorretta. Conosci di persona qualcuno che abbia effettivamente intrapreso con successo il percorso che tu delinei, e che provo a riassumere, per essere sicuro di aver capito bene? E se sì, con quali costi, non solo finanziari?
In primo luogo, come si desume dal tuo ultimo intervento, tu presupponi di avere di fronte uno “studente medio”; escludiamo quindi di parlare di un fuoriclasse, per il quale si può pensare, ma non ne sarei del tutto convinto, che le regole comuni non valgano. L’obiettivo da conseguire dovrebbe essere poi l’ammissione ad una università britannica di prestigio, non escluse Oxbridge.
Per conseguire questo obiettivo, serve anzitutto, e non lo dico io, una certa padronanza della lingua inglese, che coincide, sulla carta, con un risultato di livello almeno C1 al test IELTS. Le mie conoscenze personali di quella lingua mi portano poi a pensare che non sempre ciò basti, e a riprova cito un dato che ciascuno può controllare: si acceda al sito web dell’università di Oxford, vi sono i video delle interviste preliminari che i docenti conducono con gli aspiranti già preselezionati. Mi pare evidente che il livello linguistico sia superiore.
Servono poi determinati risultati accademici, su cui fra poco, da proporre all’università desiderata con una veste ben precisa: presentazione personale e presentazione da parte di due docenti. Può sembrare una cosa da nulla, ma non lo è: puoi essere Norman Foster in persona, ma se sbagli a compilare il modulo, la gara d’appalto per il ponte di Messina non la vinci.
Per raggiungere questo risultato, se non intendo male, la tua proposta formativa, desunta dai precedenti interventi, è la seguente.
Lingua inglese: per la primaria e, credo, anche la secondaria inferiore, si frequenti una scuola bilingue, con programma italiano. Si consegua poi un diploma italiano, eventualmente integrando la preparazione nel tempo extrascolastico. Prima obiezione, non lo dico io –anche se la mia esperienza è in tal senso- ma illustri neuropsichiatri: per ottenere un bilinguismo attivo occorre trascorrere almeno il 30% del tempo di veglia praticando la seconda lingua. Se ciò sia possibile con una scuola bilingue e non internazionale, dipende da come essa in concreto sia organizzata, ma ammettiamolo. Dove invece ho i miei dubbi che ciò possa avvenire è nell’ambito di una scuola superiore di programma italiano: che io sappia, almeno una scuola di tal tipo esiste, ed è il Liceo Carli di Brescia, ma i costi non sono dissimili da quelli del liceo IB, e quanto valga il relativo diploma per l’ammissione ad una università straniera ancora non lo si sa, perché non esistono ancora, per ragioni strettamente cronologiche, i primi diplomati. Mi si potrebbe obiettare che tu non hai fatto nulla di tutto questo, e conosci lo stesso benissimo l’inglese, e qui non replico, perché quanto tu dici sul tuo modo di gestirlo, che passa, per tua stessa ammissione, dalla traduzione di un pensiero in italiano, non mi convince appieno, soprattutto pensando non al lavoro, ma appunto ad una frequenza universitaria con professori di madrelingua.
Requisiti accademici per l’ammissione all’università: si consegua un diploma italiano, integrato nelle ore extrascolastiche con la preparazione “da privatista” degli A levels richiesti. E qui vorrei sentire appunto la tua esperienza concreta: sono effettivamente reperibili insegnanti che impartiscano tale preparazione? ad esempio, per le materie scientifiche, è necessaria la disponibilità di un laboratorio: per convincersene, è sufficiente compulsare le pubblicazioni sui programmi dei vari A levels, disponibili –ad esempio- in tutte le librerie Waterstones. Ho poi l’impressione che siffatto insegnante, ancorché reperibile, richieda quello che le agenzie immobiliari chiamano “prezzi impegnativi”, ancora una volta, dell’ordine di grandezza richiesto per un IB. Ancora, non sono del tutto certo che un’università inglese veda con assoluto favore un A level conseguito da privatista: sicuramente sono più avanti di noi, per i quali privatista è sinonimo di preparazione, diciamo “diversamente approfondita”, ma vorrei capire di quanto. Esiste ad esempio una tariff dell’UCAS per questi casi? O comunque una casistica? Nemmeno sono da trascurare i costi umani: studiare a questo livello dopo un normale orario alla mattina, e dopo i relativi compiti a casa, sarebbe impegnativo anche per un adulto, soprattutto in termini di sforzo di volontà. Si tenga poi presente che il livello richiesto non è poca cosa: mi permetto di consigliarti, naturalmente se già non lo conosci, l’esauriente “Oxbridge entrance – The real rules”, di Elfi Pallis, che è appunto centrato su Oxbridge, ma esprime considerazioni valide per tutte le università di livello. Sbaglierò, ma mi pare che un liceale italiano, malgrado l’ottima formazione che tu ritieni gli venga impartita, sarebbe un poco, per così dire, out of his depth.
Da ultimo, le strettoie burocratiche. Per prima cosa, nel sistema inglese, ci si iscrive all’università nell’ambito dell’ultimo anno di un corso di diploma quadriennale. Rispetto agli studenti nazionali, quindi, il nostro diplomato è già un anno in ritardo. C’è poi la questione di redigere la domanda: i docenti italiani, per quanto validi, non dispongono della professionalità specifica, ed è quindi necessario, ancora una volta, un esperto esterno. I relativi costi, non so con quali garanzie di corretto risultato, sono dell’ordine dei 3000 euro, solo per compilare lo statement, come ho potuto apprendere da persone presenti all’ultima fiera Study in UK. Può darsi che non mi abbiano detto la verità, e anche qui mi interessa l’altrui esperienza. In tali termini, però, non mi stupisce quanto ho appreso personalmente, ovvero che gli studenti italiani di alcune università piuttosto grandi – per fare nomi, Anglia Ruskin, City of London e Manchester- sono in massima parte studenti di dottorato, e quelli undergraduate provengono pressoché tutti da scuole di tipo internazionale, ovvero, ancora una volta, dal famigerato IB.
Si sarà a questo punto capito che sulla tua proposta ho qualche perplessità, perché mi sembra un poco troppo italiana, nel senso di affidarsi un poco troppo all’italico stellone. Per parte mia quindi, salva prova contraria, continuo a ritener valido il percorso che i miei figlioli stanno intraprendendo, e che se Dio vuole continueremo. Il rischio, così bene da te evidenziato, è di fare un investimento sbagliato, ma con un talebano come me, quando si tratta dei suoi figli, ammetto che è difficile ragionare.
Gentile Francesco, confermo che le agenzie praticano questi prezzi per seguire tutto il processo UCAS. Mio figlio lo ha fatto quest’anno con il mio aiuto, e abbiamo risparmiato 3000 euro. Ha ricevuto tre offerte su cinque e ora vediamo come va la maturita’ per la conferma da parte della sua firm choice…
Questa esperienza, che a causa del costante approfondimento necessario mi ha portato su questo blog, ci ha insegnato parecchio sui diversi sistemi scolastici. La nostra seconda figlia, attualmente in terza liceo scientifico, sta valutando di non finire il liceo, ma di cercare in qualche modo di fare A Levels o Advanced Placements per accedere prima all’universita’ in UK, dove gia’ sa cosa vorrebbe studiare. Anche noi abbiamo portato i nostri figli allo UK Education Fair di Milano, e infatti… eccoci qui, con uno che sta per partire – se tutto va bene – e l’altra che scalpita…
Vale, credo che tu stia commentando sulla base di informazioni a tua disposizione inaccurate. Se hai preso decisioni sulla base di quelle informazioni. Cosa fatta capo ha.
L’IB ha 6 materie + 3 “core elements” , dove si sostiene un esame specifico scritto per ogni materia. Non è come lo scientifico dove si sostengono due soli test scritti, che da dieci anni sono sempre italiano e matematica, seguito da un colloquio generico e nei fatti soggettivo. Già qui vi è un forte divario che non si può colmare facendo exra qualcosa nell’ultimo biennio. Si può compensare iniziando da “day 1”, cioé dalle elementari. Su come compensare, è un altro discorso.
Però tu fai riferimento ai gcse e A-level. Tralascio Oxbridge perché valgono regole specifiche che magari sotto descrivo brevemente. Gli ammessi all’Università di Durham hanno in media UCAS point pari a 520 circa. Consideriamo Durham quindi come benchmark di una università buona e accessibile da qui. Il che vuol dire aver conseguito 3,7 A-level con A* (un A* vale 140 ucas point). L’A* è un risultato molto difficile da ottenere, ed avere un filotto di 3 o 4 A* è molto molto difficile, per cui molti studenti, cioé quasi tutti, sostengono un numero più elevato di A-level del minimo sindacale. Naturalmente se immaginiamo un straight A student (cioé non A*), abbiamo bisogno di più di 4 A a A-level, e questo solo per Durham, non l’Imperial College che è più selettivo. Il carico di lavoro per ottenere un solo A* (immaginiamo matematica avanzata), è equivalente ad analisi 1 dell’università italiana a ingegneria. Se lo studente non arriva attrezzato deve compensare con il talento ma il tempo che deve distogliare al resto è tanto. Due A* + llceo italiano? No way. Il No way deriva dal fatto che il metodo è completamente differente dal nostrano. Se non è integrato con la scuola non si può fare. Non si può arronzare nello studio né impapocchiare l’esaminatore. Ho scritto prima dell’A-level di greco, ma parlando di A-level di biologia, o di chimica (obbligatoria per chi sceglie medicina), la quantità di lavoro è fuori dalla portata dello studente se, come fa notare F. Spisani in altro commento, non assistito da chi conosce la materia. I gcse di biologia o di chimica sono superiori alla biologia e chimica che si studia nei 5 anni in Italia. Il laboratorio non è facile da riprodurre in casa (l’ho fatto per mia figlia, e tutta l’attrezzatura non è nemmeno disponibile in Italia se non compri professionalmente da fornitori specializzati per lab universitari). Questo sforzo non è alla portata di uno studente medio, ma di uno studente capace e molto motivato che viene aiutato.
Vale, poi qui scrivi: “Ci mancherebbe quindi solo che il livello dell’ A-levels di greco del 18 enne inglese non fosse maggiore del livello medio del nostro maturando 19enne che, in contemporanea, deve seguire almeno altre 5-6 materie, non solo 2 (che potrebbero per inciso essere Italiano e Latino). Già il ragazzino inglese studia solo 3 materie/segue solo 3 corsi, vogliamo almeno che ciascuna materia sia un po’ più approfondita di chi invece ne segue invece 6 o 7?”.
I ragazzini a 16 anni fanno almeno 8 gcse, e nelle migliori scuole 10. In media quelli ammessi a Cambridge ed Oxford ne hanno fatti 12. Nelle materie scientifiche il programma gcse è più ampio e profondo di quanto viene svolto nei 5 anni in Italia, ad esempio biologia, chimica. Il programma di matematica avanzata (further maths) di gcse è superiore al 5° anno dello scientifico (anche se non in tutte le dimensioni). In storia, no, il programma è deep, ma non ampio. In geografia è deep ma non ampio. A meno che non hai storia in mente, la tua affermazione è inaccurata. Quindi lo studente del sistema inglese a 16 anni ha già una preparazione complessiva profonda e, in alcuni casi, più ampia. (Ora sembra che il sistema inglese sia perfetto e quindi privo di difetti. In realtà i difetti ci sono e attengono all’attuazione organizzativa. Un sistema così ambizioso richiede scuole efficienti, insegnanti preparati e famiglie consapevoli. Condizioni meno facili da ritrovare nelle scuole pubbliche, sopratutto nei quartieri periferici.)
Ammissione a Oxbridge. Non riporto cosa c’è scritto nelle brochure ma cosa avviene nei fatti.
In primo luogo al penultimo anno bisogna sostenere un test nella materia in cui si ritiene di voler far domanda. E’ un test standardizzato dove fondamentalmente si misura l’intelligenza e l’attitudine in quella materia (capacità critiche nelle materie umanistiche, capacità quantitative nelle materie scientifiche). Lo scopo è quello di inviduare candidati potenzialmente capaci, lasciando poi ai risultati degli esami la verifica della “studiosità”. Fatto il test, Oxbridge al quarto anno esamina le domande (il ciclo Oxbridge e medicina è anticipato rispetto al ciclo di ammissione ordinario in UK che è centralizzato) e di fatto seleziona per una intervista chi: 1) ha inanellato 11-12 GCSE con voto A*, di fila (sono ammesse una o due A, una B è il bacio della morte); 2) ha un expected grade (stimato dalla scuola) per lo studente che dice se è on track per ricevere 3 o 4 A* ad A level (o equivalente IB), specie nelle materie rilevanti, in realtà dai risultati effettivi gli ammessi a Oxbridge hanno conseguito almeno 4 A* e 1 A ad A-level (sono più generosi in settori come musica e arte); 3) un personal statement che ha convinto l’Università. L’intervista è una via di mezzo tra esame vero e proprio, intervista attitudinale e motivazionale, verifica delle motivazioni stesse. Ad esempio, se vuoi fare medicina (questo vale per tutte le interview a medicina per qualsiasi università) devi aver dimostrato negli anni precedenti tale motivazione attraverso attività di ricerca (gli hs scrivono paper pubblicati su riviste, oppure attraverso volontariato in un ospedale in modo sistematico negli anni etc.). Soddisfare tutte le condizioni di cui sopra non è garanzia di ammissione. Se si supera il colloquio, si ha una proposta di ammissione condizionale al faggiungimento del voto previsto per l’A-level. Ad esempio, se eri on track per un A* in chimica, e poi prendi A, sei fuori.
Ora una nota polemica generale sul sistema italiano. Dopo decenni di discussioni, la Buona scuola ha partorito un Rapporto (https://labuonascuola.gov.it/documenti/La%20Buona%20Scuola.pdf) che pone al primo punto, rullo di tampuri, 1) ASSUMERE TUTTI I DOCENTI di cui la buona scuola ha bisogno. Cioè stabilizzare senza criterio persone di cui non si sa, nei fatti, nulla sulle capacità professionali. Auguri!
Non so se ha preso la mia risposta. ..la ri-scrivo, scusate se sarà un repetita ..
In sintesi, allora niente da fare per i nostri ragazzi (qui non c’è nulla che assomigli vagamente a quanto sopra descritto…quello è il sistema inglese e a questo punto o si va là e ci si inserisce, o niente).
E pensare che delle scuole internazionali italiane possano fare qualcosa a livello di quanto sopra descritto (con metà studenti italiani, con un po” di quelli stranieri che si trasferiscono avanti e indietro durante l’anno, con tutti gli assestamenti che ciò richiede per insegnanti e compagni, con qualche insegnante italiano – perché non è che tutti i migliori insegnanti madrelingua inglesi aspirino proprio ad una scuola di Torino o di Mestre o Milano, quindi le scuole devono sopperire come riescono -, con la necessità di provvedere corsi e insegnamenti anche per coloro che devono o vogliono poi rientrare nel sistema italiano) mi pare francamente un po’ improbabile.
Anche questo è un metodo italiano di arrangiarsi cercando di fare il meglio con quel di cui si dispone…
O si dice che quelli descritti da Francesco 100 sono i top sistems/levels (e quindi, raggiungibili solo con un grande sforzo da parte di un ragazzo inserito e accompagnato in tutto quel percorso), o si dice che anche altrove, in modi un po’ diversi e con mezzi non sempre coincidenti con quelli sopra dettagliati, ci si può arrivare, o almeno ci si può avvicinare un po’…e a quel punto, “seconda scelta per seconda scelta” (perché la prima scelta non potrebbe che essere il sistema inglese tout court) , me la gioco tra scuola IB romana e a levels da privatista (e vedremo poi chi prenderà A*, A, B, o 7, 6, 5 etc).
Mi permetto di dissentire solo su un punto. Dire che se uno è bravo “tanto a Oxford ci va lo stesso” può essere un comodo alibi. Ci sono anche le promozioni sul campo, ma la stragrande maggioranza dei grandi generali aveva fatto l’accademia e la scuola di guerra…
Sui punti precedenti, si tratta, appunto di punti di vista, che rispetto.
Resta l’interrogativo: per preparare un A level da privatista c’è un insegnante disponibile, e quanto costa? nella mia città, ad esempio, non so di nessuno che lo faccia. Sarà vero che il nome del “preparatore” formalmente non compare, ma credi a me: se non spieghi tutto nel personal statement, qualche problema ci può essere. Un poco come se, per un certo tipo di posto di lavoro, io presentassi un curriculum che tace su anni significativi della mia carriera. Ripeto: se già non lo conosci, leggi il libro della Pallis.
Sull’ultimo punto, è proprio così. Allo stato, il diploma IB garantisce pressochè in tutti i Paesi l’accesso all’università a parità di condizione coi diplomi nazionali. Nel Regno Unito, ha addirittura – non so se a ragione o torto- una tariff superiore agli A levels indigeni. Quindi, nessun test di lingua, per cominciare (informazione confermatami de visu da rappresentanti delle università da me citate). Burocraticamente, l’insegnante di un liceo IB – in Italia, come all’estero- dà poi per scontato di dover “accompagnare” i propri allievi verso un’iscrizione universitaria del tipo in questione: se ciò non avviene, semplicemente, la scuola non può essere certificata IB. Un poco come gli alberghi: se non c’è la portineria 24/7, le cinque stelle non le puoi avere.
In conclusione, e scusa la franchezza, la tua proposta mi può andar bene come possibilità, tenuto presente che le ricette magiche comunque non esistono, ma personalmente non mi sentirei di sposarla come via d’elezione, anche perchè, fuori tutto, mi sembra comporti costi di ordine almeno pari al percorso che auspichiamo noi
Ma io leggo che dal 2017 il diploma IB “does non attract UCAS tariff points” ma lo faranno solo più i singoli componenti/elementi/materia (non so come chiamarli).
Ad ogni voto un punteggio, come per gli a-levels (con i gradi H1 e H2 che non danno nessun punto perché considerati sotto-soglia…addirittura).
L’ho visto sul sito UCAS, la new tariff table, dove c’è il calcolatore per i tariff points. ..se è così, mi pare un brutto segno…si sono resi conto che il vecchio punteggio globale non andava più bene per qualche motivo?Non rifletteva la preparazione complessiva e quindi non è più adatto come titolo di ingresso per ogni corso, ma ora guarderanno il punteggio del singolo componente/materia in funzione del corso di laurea scelto (come con gli a-levels)?
dal 2017 le tariffe UCAS sono state ricalibrate a tutto danno del sistema americano, dove gli AP sono stati significativamente downgraded. Per quanto riguarda l’IB, c’era una sottovalutazione dell’IB HL, che con la nuova tariffa acquista punti. Ad esempio, il singolo corso IB Higher level con punteggio 7 (il massimo) valeva 120 punti, cioè quanto un A ad A-level. Dal 2017, varranno lo stesso punteggio sia H7 sia A*, cioé 56 punti. Chi prende 1 o 2 non prende punti, e nemmeno prima. Gli Standard level e il ToK e Extended essay hanno perso punti, in termini relativi.
Nel precedente sistema il diploma IB veneva conteggiato in base al punteggio complessivo, con voto 45 corrispondevano 720 punti UCAS, cioé equivalente a 5,14 A* ad A-level. Dal 2017 (ammissione 2016), lo stesso 45 varrà 4,9 A* ad A-level. Nel complesso una perdita. Ciò è avvenuto perché si stava materializzando nelle scuole pubbliche inglesi una tendenza a trasformandosi in IB school (il governo aveva altalenato nel riconoscere questa opzione), in quanto ciò dava un certo vantaggio in termini di UCAS, sopratutto per il fatto che si conteggiava l’attività CAS che nelle scuole inglesi era comune a quasi tutti i ragazzi ma non produceva punti a fini UCAS. CAS sta per creativity, action, service.
Per quanto posso capire del sistema, ciò produrrà un vantaggio per le scuole internazionali inglesi che offrono l’IB, rispetto a quelle non inglesi, in quanto il CAS continuerà a essere soddisfatto ai fini IB e verrà rebranded ai fini UCAS, guadagnandoci in punti rispetto al CAS stesso.
Carissimi, vorrei ringraziare tutti voi per la miniera di informazioni e per le interessanti prospettive presentate.
Mi sembra di aver capito questo:
1) dal punto di vista linguistico, per accedere ad un percorso accademico internazionale, occorre un livello di conoscenza dell’inglese pari a C1, minimo. Beh questo con un bel po’ di impegno si può raggiungere anche senza frequentare una scuola internazionale o bilingue, attraverso espedienti vari (corsi, soggiorni all’estero, scambi scolastici, aupair);
2) l’accesso alle università inglesi ed americane appare davvero difficilissimo e richiede un livello di preparazione nelle materie che si intendono studiare equiparato ad una laurea breve italiana…le scuole internazionali forniscono esattamente questo tipo di preparazione e quindi ci sono maggiori possibilità di entrare;
3) c’è una competizione incredibile…Da quello che mi sembra di capire per gli studenti medi ci sono comunque poche speranze. Perchè se li mandi alla scuola internazionale e non si ottengono voti alti (negli A level o nell’ IB) allora quello che un genitore può al massimo sperare è di investire una somma rilevante per una università che forse a questo punto equivale ad una delle nostre.
Insomma, ho capito che il percorso IB o A-level è vincente per gli studenti volenterosi in ragione dell’eccellenza delle possibilità offerte ma non ho capito cosa fanno gli altri studenti, quelli così- così, per non parlare degli svogliati totali (vengono espulsi dalle scuole internazionali?).
4) avete descritto soprattutto il sistema inglese. Quando mia figlia dovrà scegliere l’università magari il top sarà entrare all’ateneo di Singapore o di Hong Kong. Il tipo di matematica che insegnano lì potrebbe seguire metodi ancora diversi…
un caro saluto a tutti.
Lavinia
Lavinia, sul punto 1) è così. Serve un livello di inglese che si può raggiungere con metodi alternativi, ma che non si può improvvisare l’ultimo anno. Da qui la mia esortazione in un commento sopra a lasciar perdere se l’obiettivo è semplicemente quello di migliorare l’inglese.
Sul punto 2) bisogna qualificare, nel senso che le università inglesi o americane non sono tutte uguali. Ci sono le very top (ad esempio, Oxbridge o MIT), ci sono quelle buone, e ci sono quelle per tutti. L’accesso alle very top è una speranza che nella maggioranza dei casi si infrange sugli scogli della realtà. Il punto è l’accesso alle università buone che hanno caratteristiche adatte allo studente. Le università buone sono meglio delle nostre italiane? La risposta ahimé, pare di sì. Edinburgh e Durham sono buone, ma hanno profili diversi, dove l’accesso non è scontato. C’è lo studente che si troverebbe meglio nella prima, ma non nella seconda, o viceversa. La difficoltà è qui, atterrare dove si vuole atterrare, ed evitare di scivolare giù.
3) lo studente medio è quello che ha maggiori margini di miglioramento, ma anche di peggioramento. Lo studente medio che sbaglia scelta è quello che può avere maggiori probabilità a raggiungere il proprio potenziale. Il punto non è ottenere un massimo astratto, ma raggiungere il proprio potenziale. Ci sono sistemi che rendono più semplice questo obiettivo, e altri sistemi che invece sono più rigidi e non permettono ciò nella stessa misura. Ovviamente, in un sistema siffatto, il ragazzo o la ragazza ad alto potenzilale raggiungono picchi più elevati, ma loro rappresentano comunque una minoranza.
Ribadisco, un sistema flessibile, come quello anglosassone (ma non è l’unico),permette proprio agli studenti medi di raggiungere il proprio potenziale. Lo studente svogliato, ma anche il freak che vuole fare ad esempio musica e greco antico, troverà anch’egli la sua strada e un percorso che si adatterà alle sue capacità. Nel sistema italiano, lo svogliato, o il freak, viene semplicemente buttato fuori, gli altri: one size fits all.
Concordo in pieno con la sua analisi per lo studente medio: in Inghilterra, le scuole sono sia piu’ flessibili, sia interessate a far progredire, ciascuno in base alle proprie peculiarita’, ogni studente e gli insegnanti sono dediti a questo. Diversamente in Italia, dove one size fits all e chi e’ bravo, lo e’ a prescindere. Credo sia vero che lo studente italiano, con il suo diploma di maturita’ con voto dignitoso e una buona conoscenza dell’inglese acquisita negli anni, possa avere buone chance sia di entrare, sia di portare a termine con successo un percorso di studi.
Per tutti coloro che sono interessati al tema IB o A levels posto qui il link ad un articolo del Telegraph sulle scuole inglesi che offrono l’IB: http://www.telegraph.co.uk/education/educationnews/11557595/Breaking-out-of-the-confines-of-A-levels-with-the-IB.html
Lavinia tocca un punto interessante , finora trascurato. Nel sistema inglese, e americano, l’università non è un diritto, come da noi ( restando da capire se questo nostro presunto diritto abbia un qualche valore). Brutalmente, se non hai i requisiti necessari, all’ università non ci vai. Con due correttivi: primo, a quanto mi consta, in Uk l’istruzione professionale non è di serie D come da noi ( serie A, classico, serie B altri licei, serie C tecnici, serie D professionale); secondo, un adulto che decida di rimettersi a studiare non è visto come uno spostato. Lo ho già scritto: se i miei figli “gna fanno”, preferisco che vadano a lavorare, piuttosto che ciondolare fino ai trent’anni alla facoltà di Scienze paranormali o al Master in fuffologia comparata. E scusate il politically uncorrect …ma qualcosa mi dice che con me vi ci siete abituati 🙂
Allora, visto che stiamo parlando di ingentissime risorse economiche, io credo che valga la pena impelagarsi in una scuola internazionale solo se si hanno figli davvero molto studiosi o davvero dotati. Per adesso mia figlia di sei anni preferisce giocare che fare i compiti e a dire il vero non mi sembra un genio! Io lavorerò come posso sull’inglese, per creare le eventuali premesse partendo subito (sono d’accordo che una competenza linguistica C1 non si improvvisa), cercherò di offrirle degli stimoli extra ma anche di capire cosa pensa lei oltre a quello che penso io, facendo quindi la tara sulle mie eventuali ” proiezioni narcisistiche”. Se lei amerà studiare e coglierò una reale curiosità bene, si possono fare tutti i sacrifici del caso, altrimenti no. Per adesso la scuola pubblica italiana che ho scelto insegna metodo, disciplina e un insegnamento rigoroso e moderno ( ed è perfino obbligatoria la divisa!). Vediamo come va. Magari vorrà fare la cuoca, chi lo sa. L’ importante è comprenda da subuto che qualsiasi cosa intenda fare, lo deve fare con impegno.